Nell’ultimo decennio del XX secolo l’avvento del world wide web ha segnato l’inizio di un’era in cui ogni individuo ha la possibilità di interagire con altri individui di ogni punto del mondo, fruendo di un bagaglio enorme di informazioni a livello globale.
La produzione di saperi in rete sta trasformando radicalmente le forme tradizionali di trasmissione e comunicazione di ogni sapere. In internet ognuno può esporre il suo pensiero con una scala paragonabile a quella dei mass media; per la prima volta, chiunque abbia un sito web, può rivolgersi ad un pubblico globale.
Sebbene sia difficile determinare l’autenticità e l’affidabilità dell’informazione contenuta nelle pagine web, resta comunque innegabile la grande offerta di immagini, informazioni e contenuti che offre. Le reti sono un potente mezzo di omologazione dei linguaggi (Longo G., Homo technologicus, Meltemi, Roma 2001).
Fra le varie modalità espressive presenti in internet, per esempio, si assiste ad un processo di selezione naturale, per cui alla fine, la maggioranza dei web designer ripete gli stessi schemi comunicativi; la maggior parte dei contenuti rischia di essere banalizzata e la maggior parte dei percorsi di navigazione resta entro certi limiti prestabiliti.
Così, oggi, la funzione di internet oscilla costantemente tra mezzo di omologazione globale e strumento di individuazione e di personalizzazione, che consente ad ogni individuo e a ogni comunità di esprimere la propria identità e comunicarla agli altri senza tradirla e svuotarla.
Se le nuove tecnologie di comunicazione permettono ai nostri sensi e alle nostre azioni di estendersi per migliaia di chilometri al di fuori del nostro corpo, è anche vero che la nostra realtà, o meglio, la nostra percezione della realtà, è sempre più mediata proprio da quelle tecnologie.
Ne consegue un’alterazione del nostro senso di spazio, non solo fisico, ma anche e soprattutto sociale.
Alla ritirata nel privato, intesa come tendenza ad isolarsi e restare sempre più chiusi in casa, favorito dalla televisione, che è un mezzo essenzialmente passivo, non-interattivo, è seguito un coinvolgimento con tecnologie sempre più interattive: le webcam, i CD multimediali interattivi, i giochi al computer, i social network e così via.
Franco Cambi, uno tra i pedagogisti contemporanei più attenti agli effetti dei mezzi di comunicazione di massa, ci aiuta a guardare la questione dal punto di vista educativo.
Egli sottolinea l’importanza che i media hanno assunto nell’educazione delle nuove generazioni, e non solo esse.
I media sono componenti fondamentali per la formazione dell’individuo in quanto hanno modificato irreversibilmente il panorama educativo ridimensionando il panorama delle altre agenzie ed esperienze educative.
Dal loro apparire e diffondersi, i media sono sempre stati sottoposti ad un supplemento di attenzione pedagogica, per comprenderne e analizzarne gli effetti, alcune volte considerati virtuosi, altri deleteri, sulla formazione dei soggetti.
In “Cattiva maestra televisione” (Popper, Condry, 1994), si ritrovano una serie di saggi fortemente critici nei confronti del mezzo televisivo. La critica di Condry è rivolta in particolare, agli effetti negativi che i programmi ad alto contenuto di violenza hanno sui bambini. Inoltre egli sottolinea come la televisione contribuisca a quella percezione dell’”eterno presente”, cioè quella incapacità di apprendere dalla memoria e di immaginare il futuro che sembra caratterizzare la società attuale. Tuttavia la televisione non è “avaloriale” o trasmettitrice di “cattivi valori” in sé, ma diffonde valori congrui con quelli del mercato; non agisce per favorire gli interessi generali del telespettatore, cioè della pressoché totalità dei cittadini.
Il filosofo Karl Popper entra più nel merito di alcuni aspetti della dimensione educativa della televisione in quanto potrebbe diventare una tremenda forza culturale per lo sviluppo di apprendimenti utili; anche se è terribilmente difficile. Egli propone una sorta di “patentino” per chi produce televisione perché ritiene necessario che tutto coloro che fanno televisione si devono rendere conto che “agiscono come educatori perché la televisione porta le sue immagini sia davanti ai bambini e ai giovani che agli adulti. Chi fa televisione deve sapere di avere parte nell’educazione degli uni e degli altri”.
Attualmente, come sostiene anche Tramma, la televisione è in gran parte delle sue componenti una “cattiva maestra” non per la scarsa o nulla consapevolezza di chi vi opera, ma perché tutto ciò “paga” in termini di mercato, audience, profitti, consumo e influenza educativa.
Nonostante ciò, egli sottolinea come essa sia comunque un importante mezzo di comunicazione e di educazione per diversi aspetti:
– è un’importante agenzia di formazione per il cittadino consumatore, vi è infatti una significativa intenzionalità educativa finalizzata al consumo;
– è anche una TV definita ”pedagogica”, cioè finalizzata alla formazione dei fruitori in quanto fornisce informazioni, stimola riflessioni critiche, eccetera; una televisione che può tendere intenzionalmente ad educare i cittadini nell’accettazione del presente;
– è un mezzo di trasmissione, spesso in modo implicito, di modelli sociali, ideologie, approcci alla vita, gerarchie di valori. E’ una tv che propone modelli irreali di uomini e donne; in alcune trasmissioni, dove si vincono alte somme di denaro, si accentuano la diffusa e post-moderna convinzione sociale dei “tempi brevi”, delle scorciatoie per il successo e del sapere effimero; altri programmi assegnano spazio alle storie normali glorificando un modo di essere e di percepirsi che non necessita di apprendere, cambiare o affinarsi;
– la tv come oggetto in sé può essere considerata informalmente educativa grazie alle sue funzioni e alla posizione che occupa in alcune dimensioni quotidiano – esistenziali dei soggetti.
A differenza della televisione, i nuovi media offrono possibilità di non essere solo passivi spettatori di video, ma di produrli in proprio: questo passaggio è avvenuto grazie allo sviluppo della rete Web e alla comunicazione tra questa e il linguaggio filmico e televisivo.
Ancora Tramma, per quanto riguarda i risvolti educativi informali dei nuovi media, sostiene che è possibile che se, da una parte, tutto ciò che stimola la produzione in proprio (il fare) riducendo il tempo dell’esposizione passiva (il fare altrui) può essere considerato positivo, dall’altra qualche dubbio si affaccia riguardo al “fai da te” senza competenze (il saper fare) che rischia di aumentare il peso complessivo della “banalizzazione delle competenze necessarie” per affrontare la vita, elemento questo che potrebbe essere considerato uno dei tratti distintivi della contemporaneità.
Come sottolinea Luciano Arcuri, oggi emerge un atteggiamento ambivalente nella popolazione adulta nei confronti dell’utilizzo da parte dei bambini e adolescenti dei cosiddetti “giochi al computer”, della tv e dei cellulari, “intesi come occasioni di apprendimento, e nello stesso tempo degli oggetti che danno dipendenza psicologica e condannano ad un enorme spreco di tempo”( L. Arcuri, Crescere con la TV e Internet, Il Mulino, Bologna, 2008). Seguendo il pensiero dell’autore, il problema è che esistono maggiori possibilità che coloro che navigano in Internet “parlino con sconosciuti e realizzino legami di tipo interpersonale in un mondo virtuale, piuttosto che interagire con persone in carne ed ossa e con figure parentali.”
Proprio questo sembra un elemento di criticità: le nuove tecnologie educherebbero alla non prossimità, alla distanza, alla mancanza di relazioni concrete, corporee.
E’ vero che internet ci isola dalla fisicità ma ci permette di sperimentare processi di interazione sociale del tutto nuovi.
La realtà del cyberspazio, inteso come spazio virtuale all’interno del quale possiamo agire, passa dallo stadio di simulazione di un ambiente, a quello di creazione e di sintesi di un nuovo tipo di sistema sociale.
L’almeno teorica libertà di scelta e definizione dei personali stili di vita, prospettata dalla condizione esistenziale della “società liquida”, per dirla con Bauman, che costringe ad una quotidiana revisione di comportamenti e propensioni di consumo, postula il superamento di ogni normativa rigorosa, la fuoriuscita dalle cornici tematiche fisse, l’abbandono di ogni codice comportamentale che sia riferito ad un modello generale.
I gusti cambiano rapidamente, testimonials si sovrappongono, stili e sistemi di vita si accavallano, contaminandosi a vicenda e producendo clonazioni tematiche, effimere e appena notate.
La nostra epoca è segnata in maniera irreversibile dalla centralità della tecnologia.
Ci colpisce soprattutto perché ridisegna i confini del possibile, alterando le forme della vita quotidiana, i comportamenti individuali e sociali, la trasmissione dei saperi, gli stessi modi in cui vediamo il mondo.
Le discussioni sulla tecnologia sono spesso segnate da un estremismo passionale, che si manifesta o come adesione entusiastica alla visione baconiana di un assoggettamento totale della natura ai bisogni e alle voglie dell’uomo; oppure, all’opposto, come rifiuto totale dell’intervento umano sull’ambiente, in nome del ritorno a uno stadio di incontaminata e idillica armonia con la natura. Poiché, comunque, la tecnologia è il destino dell’uomo, più saggia e realistica appare la posizione di quanti invocano, pur con toni, motivazioni e ricette diverse, la necessità di un rallentamento della corsa tecnologica, senza tuttavia pretendere di interromperla. Ma assumere un atteggiamento equanime e distaccato non è facile: troppo importanti sono gli effetti della tecno – scienza.
In ogni caso la tecnologia non è un fenomeno superficiale: al contrario essa cala in profondità e modifica l’essenza della società che l’adotta e degli individui che ne fanno parte.
Si può addirittura affermare che l’evoluzione della tecnologia contribuisce potentemente all’evoluzione dell’uomo, anzi è diventata l’evoluzione dell’uomo.
Infatti le due evoluzioni sono intimamente intrecciate in un’evoluzione “bioculturale” o “biotecnologica”, al cui centro sta una sorta di simbionte (Longo G., Homo technologicus, Meltemi, Roma 2001) in via di formazione: l’homo technologicus”.
Rispetto alla lentezza dell’evoluzione biologica, l’evoluzione bioculturale è segnata da mutamenti sempre più rapidi e affannosi, come se mancassero meccanismi di riequilibrio a frenarne la corsa: i lenti processi collaudati della natura, che procede per tentativi ed errori, sono qui cortocircuitati da meccanismi di attuazione grazie ai quali gli adattamenti immediati alle novità tendono a radicarsi subito nella struttura profonda della società. Questi meccanismi, peraltro, sono segnati da una grande fragilità, che si contrappone alla robustezza dei prodotti della natura. Poiché la tecnologia (come il corpo), fa parte integrante dell’uomo, l’homo technologicus non è “homo sapiens più tecnologia”, bensì “homo sapiens trasformato dalla tecnologia”, dunque è un’unità evolutiva nuova, sottoposta a un nuovo tipo di evoluzione in un ambiente nuovo.
Benché sia immerso nel mondo naturale e sia quindi soggetto alle sue leggi, il nuovo simbionte vive anche in un ambiente non materiale, fortemente segnato dalle informazioni, dai simboli, dalla comunicazione e, sempre più, dalla virtualità. Questa duplice immersione rispecchia la fase di transizione in cui si trova oggi l’uomo, il quale vede il futuro con gli occhi, i parametri e i valori del passato.
Siamo incerti tra progresso e conservazione, siamo combattuti tra un nomadismo avventuroso, alimentato dalla perdita delle certezze antiche, e il rimpianto di un sedentarismo improntato ai valori stabili della tradizione. Ci sentiamo più padroni del nostro destino, perché ai ciechi meccanismi dell’evoluzione biologica abbiamo affiancato quelli consapevoli del finalismo razionale.
C’è in particolare, una caratteristica che deve essere sottolineata, se si vuole affrontare il tema della sempre maggiore importanza della dimensione tecnologica: la sua autonomia, sempre più sfuggente a controlli o istanze regolatrici, sempre meno condivisi da un pubblico che ne vede gli effetti ma non le radici.
E’ importante introdurre nella ricerca tecnologica e scientifica una dimensione etica in quanto gli sviluppi tecnologici hanno esteso il campo della responsabilità umana verso nuovi ambiti: la natura, il pianeta e il destino evolutivo di tutta la specie umana.
Leggendo Amartya Sen (A. Sen, Giustizia globale, con Sebastiano Maffettone e Piero Fassino, Il Saggiatore, Bari, 2006), si scopre che la qualità della vita della società e delle persone possono essere valutate in funzione alle capacità proprie delle persone, piuttosto che alla ricchezza e al benessere economico della società. Capacità personali intese come possibilità di collocarsi in una società, di scegliere la forma della propria esistenza al mondo, attraverso la libertà di indirizzi, di istruzione, affettive, relazionali, culturali, religiose, politiche, associative, senza prevaricazioni, violenze o costrizioni.
“Assumendo la tecnica la dimensione dell’onnipotenza, essa si profila con una grandissima ambiguità: perché è vero che è l’unica dimensione in cui l’uomo si può salvare, può pensare la propria salvezza, ma non essendoci un garante assoluto, la tecnica può anche essere la possibilità dell’orrore. Cioè può scatenare entro di sé delle contro finalità che, lungi dal salvare, distruggono il mondo” .
La tecnica, a seconda dei casi e della prospettiva attraverso cui si guarda il reale, può essere valutata sia come ciò che supporta l’agio e impedisce il disagio, sia come ciò che produce disagio.
Proprio questa “oscillazione tra salvezza e distruzione è il destino della tecnica”. Emerge come la tecnica, a partire dalla modernità, sia costitutivamente legata al disagio e mostri il suo lato ambiguo, duplice, ambivalente: ciò che libera è anche ciò che incatena (U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2009).
La tecnica infatti è sempre al di sopra o al di sotto delle aspettative di chi la utilizza o la valuta, soprattutto quando si tende ad enfatizzarne un unico aspetto, senza rendersi conto dell’ambivalenza che la contraddistingue. Come suggerisce Alessandro Ferrante (A. Ferrante, Disagio e tecnica, in Crisi sociale e disagio educativo, a cura di P. Cristina, Franco Angeli, 2012) varrebbe forse la pena di sostare nelle contraddizioni che questa apre, lasciandosi contaminare, valutando volta per volta rischi ed opportunità, sforzandosi di cogliere le implicazioni, l’incidenza e gli effetti delle tecniche che punteggiano il nostro esistere, gli scenari che dischiudono, le pratiche sociali entro cui acquisiscono senso, il loro portato formativo e trasformativo.
Occorre essere in grado di valutare e scegliere, nella molteplicità delle informazioni, in questo modo si può veramente essere persona del terzo millennio, in grado di esprimere indiscutibilmente un’opinione nata da una scelta libera e consapevole.